Un’univoca definizione di shadow banking non esiste, ma diversi organismi internazionali di controllo, tra i quali il Comitato Europeo per il rischio sistemico (ESRB), il Comitato per la stabilità finanziaria (FSB) e, recentemente, l’Autorità Bancaria Europea (EBA) si sono occupati di questo fenomeno che potrebbe, anche se in modo un po’ sommario, essere definito come l’insieme dei soggetti che svolgono di fatto un’attività di intermediazione creditizia e offrono servizi (percepiti come) bancari, con una regolamentazione “leggera” o addirittura nessuna regolamentazione.
Quello che è certo è che si tratta di un’attività per nulla marginale: l’intermediazione finanziaria non bancaria, nell’ambito della quale viene collocato, con una varietà di classificazioni non sempre uniformi, lo shadow banking, rappresenta, a seconda delle stime, tra il 40 e il 50% degli asset del sistema finanziario internazionale, che ammontano a circa 400 trilioni di dollari.
Di cosa stiamo parlando in concreto? Possono rientrare nello shadow banking, a certe condizioni che dipendono dalle caratteristiche specifiche delle iniziative, i fondi di investimento, specie fondi di mercato monetario e fondi che fanno ampio ricorso a derivati e a condizioni di leverage elevati, quali i fondi immobiliari e gli hedge funds; i dealers in securities e derivati; i soggetti impegnati a vario titolo nelle cartolarizzazioni; gli operatori che svolgono attività creditizie con ricorso a passività a breve e all’emissione di valori mobiliari percepiti come liquidi dal mercato; i cosiddetti digital lenders e marketplace che animano il comparto fintech.
Perché è importante parlarne? E perché se ne occupano i regulators?
Lo shadow banking svolge un ruolo importante, finanziando intensamente l’economia reale, amplia la gamma di asset classes a disposizione degli investitori, con combinazioni rendimento-rischio giudicate interessanti dal mercato, contribuisce all’efficienza del sistema finanziario, con logiche di specializzazione ed economie di scala. Al tempo stesso esso può presentare rischi significativi, non sempre presidiati da controlli adeguati. Le iniziative riconducibili allo shadow banking presentano infatti gradi di leverage elevati e generano passività che sono a valore di mercato ma spesso vengono percepite dalle controparti con obbligo di rimborso. Occorre inoltre tenere presente che lo shadow banking ha un grado di integrazione elevato con il sistema bancario, che è coinvolto sia nei processi produttivi sia in quanto distributore dei prodotti alla propria clientela, con tutte le implicazioni del caso in termini di reputazione. Esiste quindi una relativa complementarità tra attività bancaria tradizionale e shadow banking, che deve imporre attenzione verso quest’ultimo anche nella prospettiva dei controlli.
Le riflessioni sulle possibili modifiche alla regolamentazione al fine di ridurre i rischi connessi allo shadow banking sono numerose e articolate (per un’analisi puntuale e approfondita si può fare riferimento al bel lavoro di Andrea Resti, Marco Onado, Mario Quagliariello e Phil Molyneux, Shadow Banking: what kind of Macroprudential Regulation Framework?, Policy Department for Economic, Scientific and Quality of Life Policies Directorate-General for Internal Policies, Parlamento europeo, giugno 2021) e riguardano, ad esempio, l’introduzione di limiti e costi per il rimborso delle quote dei fondi agli investitori, al fine di evitare effetti deleteri sulla liquidità del sistema, in presenza di determinate situazioni di mercato, e di ridurre le aspettative degli investitori ad un rimborso “immediato e senza costi” delle proprie posizioni; la fissazione di limiti più stringenti all’indebitamento, specie a valere sulle posizioni in derivati; l’imposizione di vincoli di capitale e liquidità analoghi a quelli delle banche; il rafforzamento della protezione della clientela, attraverso standard di reporting sui rischi più approfonditi e sistematici; il livellamento dei controlli su istituzioni diverse qualora svolgano la medesima attività. Da quest’ultimo punto di vista è davvero paradossale infatti che alle banche, che sono strettamente regolate e sorvegliate, certe attività non siano consentite, mentre le stesse attività vengono svolte da operatori che possono essere anche fuori da qualsiasi forma di controllo. Più in generale ci si può chiedere se la presenza dello shadow banking non alteri effettivamente il playing field competitivo degli operatori del sistema finanziario, che è sempre all’attenzione dei legislatori (si pensi alle norme antitrust) e dei supervisori.
Gli intermediari finanziari non bancari che operano in Italia si devono preoccupare dell’attenzione delle autorità di regolamentazione e supervisione verso lo shadow banking? Nel nostro Paese l’intermediazione finanziaria non bancaria opera nell’ambito dei controlli delle autorità europee e nazionali e, in particolare, per quanto riguarda gli intermediari creditizi, quali le società di factoring, finanziamento alle famiglie e leasing, vi è un regime di sostanziale equivalenza rispetto alla vigilanza prevista per le banche. Si osservi che la situazione è diversa in altri Paesi europei, dove diverse attività di intermediazione finanziaria sono svolte secondo regimi di sorveglianza molto più blandi o al limite senza controlli specifici, operando quindi alla stregua di “normali” società commerciali. Come rileva esplicitamente l’EBA: «only those entities that carry out activities outside an adequate prudential framework should be treated as shadow banking entities». Non è certo il nostro caso!
Naturalmente anche nel contesto italiano potrebbero essere rilevabili fattispecie che definirei di “mini shadow banking”, connesse per lo più al posizionamento di alcuni operatori al di fuori del dominio degli intermediari regolamentati ex art. 106 del TUB, in virtù della natura delle operazioni svolte, relativamente ad esempio all’acquisto di crediti d’impresa in mercati marginali o a talune fattispecie di noleggio a lungo termine. In tali casi potrebbe essere rilevabile una certa ambiguità rispetto all’esercizio riservato dell’attività finanziaria, da affidare all’attenzione del supervisore nazionale più che alle autorità europee, ma non mi sento di affermare sul piano generale, salvo approfondimenti da riferire a specifiche combinazioni prodotto/mercato, che ne deriva una effettiva e significativa alterazione della concorrenza.
Qualche riflessione in più merita il caso delle iniziative di cartolarizzazione dei crediti commerciali delle imprese, verso altre imprese o verso la pubblica amministrazione. La popolarità di tali operazioni, certo non nuove, è in crescita, per il persistere di tassi d’interesse estremamente bassi, che aumenta l’appetito degli investitori per investimenti alternativi e per la diffusione dell’utilizzo di piattaforme elettroniche che abilitano e semplificano l’incontro tra domanda e offerta di tali asset, grazie appunto anche alla cartolarizzazione. Quest’ultima è stata oggetto di numerosi interventi normativi volti a promuoverne l’utilizzo da parte delle imprese, attraverso progressive semplificazioni della disciplina in termini di formalità e opponibilità. È interessante notare che le banche e gli intermediari impegnati nell’acquisto dei crediti d’impresa risultano soggetti a requisiti organizzativi e patrimoniali assai più stringenti rispetto ai veicoli per la cartolarizzazione e ai fondi che investono nei titoli da questi emessi, spesso accompagnati da rating particolarmente elevati, sottoscritti anche da altre forme di investitori qualificati e family offices. Anche in questa differenza di trattamento c’è tutto sommato un po’ di “shadow”. In questa prospettiva, è certamente utile che, come peraltro sta avvenendo ora con particolare riguardo all’attività di gestione e recupero dei crediti deteriorati, le Autorità monitorino con attenzione i possibili profili di distorsione del “level playing field” che l’attuale ordinamento delle cartolarizzazioni può generare, in particolare sotto il profilo prudenziale, e valutino opportune iniziative volte ad assicurare la piena consapevolezza dei rischi assunti, anche in una prospettiva sistemica.
Alcuni contenuti del presente articolo sono stati presentati dall’autore in una tavola rotonda nell’ambito del Salone del leasing e del noleggio a lungo termine (LEASE2021), organizzato da Assilea (20-21 ottobre 2021).